Sei vivo?



il demone in me.

Nel corpo - prigione,

nel corpo - corvèe.


Uscita - la bara -

dal mondo-galera.

"Il mondo è una scena"

balbetta l'attore.


Faceva sul serio

lo zoppo buffone:

nel corpo-museo,

nel corpo-copione!


Cent'anni di vita!

Sei viva? Sta' zitta!

A certi, ai poeti,

il corpo va stretto.


Andarmene a spasso

nel corpo-carcassa,

nel corpo-vestaglia,

nelle ossa-tenaglia?


Io valgo di più.

Al caldo - sto male.

Nel corpo- nel mio

sudario casuale


Nel corpo-sepolcro.

Nel corridoio nero.

Nel corpo che muore.

Nell'io cimitero.


Nel corpo - in esilio. Nel corpo -

mobilio di morgue. Nel corpo storpiato.

Nel corpo coperto di rughe. Nel corpo

come nella morsa


di una maschera di ferro.


Marina Cvetaeva, E ancora si muove




Un corpo che non basta a se stesso. Eppure, tutta la nostra vita passa nel nostro corpo e comunichiamo vita attraverso il nostro corpo. Tuttavia, ciò che sembra dirci la poetessa russa Marina Cvetaeva, è che questo corpo che viviamo rischia di diventare la nostra stessa gabbia. Ma come è possibile? Perché viviamo questa dicotomia fra il fisico e l'eternità. Da una parte il corpo fisico è il nostro primo contatto con il mondo esterno, la nostra barriera osmotica fra ciò che proviamo dentro e ciò che sperimentiamo fuori di noi. Nel nostro fisico viviamo questa dialettica fra l'interno e l'esterno, la quale è anche una dialettica che cambia con il tempo, dal momento che il corpo risente della sua stessa mancanza e fragilità. Il nostro fisico, allora, non è mai qualcosa di statico, ma neanche un semplice strumento. Il fisico siamo noi, ciò che appartiene al nostro corpo, tanto da non identificarsi con il corpo stesso. Allora, la prima differenza da fare è quella fra il fisico e il corpo. Ed è una differenza necessaria, sembra dirci la Cvetaeva, dal momento che senza questa differenza il nostro fisico sembra diventare la prigione del nostro corpo. Infatti, se consideriamo il fisico come ciò che è soggetto alla caducità, ciò che ci permette di sperimentare il mondo, di cambiare, di vivere, per corpo intendiamo la totalità del nostro essere, l'integrità della nostra persona. Allora, sono corpo anche le emozioni, i sentimenti, l'inconscio, la percezione della realtà stessa. In questa prospettiva, ciò che proviamo e ciò che percepiamo prendono forma nel nostro corpo, tanto da non essere più la barriera osmotica fra interno ed esterno, ma convergenza fra ciò che provo e ciò che esprimo. Ed è questa unione fra ciò che provo e ciò che esprimo a diventare poesia, a far sì che la nostra vita non sia semplicemente a livello fisico e che, nel fisico, non viviamo solo il limite delle caducità, ma il desiderio d'eterno. Una unione poetica, in cui il la fragilità del corpo vive dell'eterno dell'Altrove, di una sete che sorpassa l'io-cimitero e che ci spinge a dire: io valgo di più. Allora, quella voce risuonerà ancora dentro di noi, nonostante il nostro cercare di metterla a tacere: sei vivo?

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