La battaglia sul ponte




L'interiorità di una lotta
L'opera di Giorgio de Chirico La battaglia sul ponte è del 1969 e ci racconta molto bene l'oscuro travaglio interiore che viviamo quotidianamente. L'opera appartiene a quella visione metafisica di de Chirico in cui il centro della stanza ci riporta simbolicamente alla nostra interiorità. La prima cosa che ci colpisce di quest'opera è che la battaglia sul ponte, che ci aspetteremmo in luoghi aperti, in realtà viene racchiusa in una stanza. La battaglia avviene in un luogo chiuso la cui prospettiva, però, ci proietta fuori dalla stanza. Una battaglia interiore che non riusciamo a racchiudere nella nostra stanza ma che ci spalanca all'esterno. E dall'esterno viene la luce che illumina la battaglia che infuria. Una stanza chiusa che si apre verso l'esterno, una stanza che ci riporta a comprendere che non c'è una differenza netta fra interno ed esterno, che possiamo mascherare quanto vogliamo le nostre lotte ma esse hanno sempre una proiezione fuori di noi. Per questo, non possiamo pensare di arginare le nostre lotte esteriori se non illuminiamo prima le nostre lotte interiori. Infatti, la luce che entra nella stanza non appartiene alla stanza stessa, ma è una luce esterna, una visione che se da una parte ci spinge fuori, dall'altra ci fa ritornare alla nostra interiorità. La soglia della finestra è un simbolo in cui interno ed esterno non coincidono ma uno illumina l'altro. Nella Scrittura, tutto questo viene riassunto dallo sguardo di Cristo. Nell'incontro con diversi uomini e donne, dal giovane ricco fino allo stesso Pietro, ci viene raccontato che Gesù fissa con il suo sguardo e quello sguardo illumina dall'esterno l'interno facendo intravedere il conflitto interno di ogni essere umano all'esterno.
Il ponte come il dialogo dei conflitti
Concentrando la nostra attenzione sulla battaglia che infuria nell'interno della stanza, notiamo subito che questa battaglia avviene su un ponte. Non è una battaglia disordinata e disorganizzata già in partenza, ma una battaglia direzionata, un andare contro. Da un estremo all'altro del ponte ritroviamo due correnti oscure che, al centro, producono il conflitto stesso, portando già i primi morti. Due forze che si scontrano e che non si annullano riportando a zero ma si disintegrano a vicenda. D'altronde questo differenzia il conflitto dall'armonia. Se nell'armonia ritroviamo delle forze che si equivalgono formando un equilibrio, nel conflitto abbiamo due forze che si usurano a vicenda, che si infrangono una contro l'altra. Sono due forze oscure, due forze che ci sono ma a cui non si riesce precisamente a dare un nome, in quanto sono forze che facciamo fatica a riconoscere. E proprio qui, dinanzi all'oscurità che si scontra in noi, possiamo scegliere di aprire la finestra e di illuminare queste forze, di darli un nome. Infatti, proprio quando diamo un nome ad qualcosa che non conosciamo, ecco che già quella cosa ci fa meno paura, che quella cosa diviene riconoscibile, che riusciamo a direzionare la forza che abbiamo dentro. È la stessa dinamica che utilizza Gesù quando è davanti agli indemoniati. Troppo spesso pensiamo che gli indemoniati che incontra Gesù abbiano tutti la coda e le corna, m in realtà essi sono delle forze oscure che ci abitano, ciò che non riusciamo a riconoscere in noi e che producono un conflitto interiore che ci disintegra pian piano. I demoni che incontra Gesù portano tutti alla disintegrazione dell'essere umano, anche dove ci aspetteremmo l'esatto contrario. Come il caso del nostro ponte, simbolo di un luogo di dialogo e di amicizia, diviene il luogo di conflitto di forze che non riusciamo a riconoscere. Tuttavia, è proprio quando riusciamo a dare un nome ai conflitti e non quando li evitiamo, che troviamo il nostro equilibrio. Il conflitto rimane sempre in noi, ma ciò che ci preoccupa è il nome che diamo ai nostri conflitti, il ponte che scegliamo di gettare in noi stessi affinchè i nostri conflitti possano esprimersi. 
L'acqua come rigenerazione: il battesimo della contraddizione
Quasi a contrasto, poi, con il caos del ponte, ecco che sotto ci viene presentata una sorgente d'acqua. In chiave cristiana, il simbolo dell'acqua ci riporta subito al tema del battesimo, alla grazia che sgorga in noi e che si trova proprio al centro dei nostri conflitti. Infatti, proprio facendo emergere in noi il conflitto, ecco che non abbiamo una disintegrazione interiore, ma una nuova vita, un'acqua che sgorga e che ci fa sentire vivi. Il conflitto, la contraddizione, la lotta fanno parte del nostro essere umani e, proprio in quanto ci appartengono, ecco che ci rimettono in contatto con la sorgente della nostra stessa umanità. Una umanità che, nell'acqua del Battesimo, ha assunto un nuovo senso, una nuova luce, una nuova parola d'amore: l'essere figli. Lo scandalo di Cristo, infatti, è che mettendosi in fila con la contraddizione dell'essere umano, ci ha rivelato che Dio ci chiama figli amati proprio nelle nostre stesse contraddizioni. Qui è la sorgente dell'essere umano, una vita nuova che sgorga non a prescindere dai nostri conflitti ma proprio nei nostri conflitti, al centro della deflagrazione, con un'acqua tranquilla e abbondante. Ecco, dunque, che se il conflitto cieco ci porta alla disintegrazione, alla luce del Cristo e dell'essere figli di un unico Padre, il conflitto ci riporta alla nostra contraddittoria essenza umana, alla sorgente della nostra fragilità. Passiamo, così, dalla disintegrazione alla rigenerazione, dal fallimento alla fragilità, dal conflitto alla vitalità, ma questo è possibile solo fino a quando la forza dell'unificazione interiore si apre alla trascendenza della relazione Trinitaria. 
La geometria deformata e stridente
La stanza, poi, è circondata e ingombrata da una geometria stridente e deformata. Non abbiamo linee rette o curve armoniche che potrebbero darci l'idea di un equilibrio interiore. Al contrario, abbiamo linee spezzate e curve deformate che ricalcano la battaglia sul ponte ad indicare proprio quanto la battaglia si difficile e quanto la battaglia stia incalzando in quella stanza. La geometria spezzata, inoltre, posta sullo sfondo ci riporta ad una prospettiva vissuta nella stanza stessa. Ancor prima di uno spessore e di una illuminazione che provenga dall'esterno della stanza, è la stanza stessa ad avere uno spessore, una tridimensionalità che focalizza l'attenzione verso l'interno prospettico della stanza. Se prima abbiamo parlato di una prospettiva che ci gettava verso l'esterno della stanza, ora abbiamo una prospettiva nella stanza stessa. La battaglia, quindi, avviene in una stanza che non è schiacciata su se stessa, ma che ha una forma e un fondo in cui sono ammassati oggetti che ci riportano ad una simbologia stridente. Questa geometria di linee spezzate diventa simbolo di ferite e dolori che ci portiamo dietro da anni. Molte delle persone che Gesù incontra per la strada hanno malattie interiori ed esteriori che si protraggono per anni, che sono talmente sedimentate nella loro stanza interiore da non riuscire a vederle oppure che rischiano di rafforzare e ricalcare i nostri conflitti. Sono oggetti buttati lì, eventi che non sappiamo neanche di preciso come sono accaduti o quando sono accaduti, ma sappiamo solo che ci hanno fatto del male e che il male presente è anche frutto di quei mali passati, di una sedimentazione repressa della conflittualità che rischia di emergere e di esplodere, anche in maniera violenta. Tuttavia, se gli oggetti spezzati sono collocati nello sfondo, le linee curve deformate sembrano fare da cornice sia allo sfondo sia alla battaglia. Una cornice che, posta dinanzi a noi, da una parte non ci fa vedere la fine della stanza, dall'altra racchiude e focalizza l'attenzione sulla battaglia, dall'altra ancora eccede lo stesso quadro. Non vediamo tutta la forma della linea, quasi che de Chirico ci avesse voluto rivelare un quadro che non si esaurisce nello spazio della tela, un quadro che rimane aperto e deformato. Soprattutto la linea alla nostra destra ci spinge verso l'esterno sia dalla parte della finestra sia verso il quadro, come simbolo di un'opera aperta, di una vita che è perennemente in conflitto con se stessa ma che, al tempo stesso, non si esaurisce nel conflitto stesso. Questa è l'apertura alla speranza, una mancanza che non si chiude nella stanza della propria interiorità ma si apre ad un oltre, ad un eccesso, ad una sovrabbondanza, ad un irrisolto che ancora ci mantiene in vita. 
Il castello come luogo e mèta di sfondo
Infine, dopo aver guardato il conflitto presente nella stanza, ci proiettiamo fuori, dove il fuori non è asettico e impersonale ma è un paesaggio. E in quel paesaggio, l'elemento predominante è un castello. Ora, nella visione di de Chirico, il castello è sempre il luogo della mèta, ma anche il luogo del sottofondo. Esempio del castello come mèta è l'opera Ritorno al castello, in cui appunto mèta e ritorno combaciano. Invece, esempio del castello come sottofondo è Le muse inquietanti dove il castello si staglia proprio in lontananza. Ci piace, allora, vedere nel castello il luogo simbolo di una mèta-ritorno ma anche di un sottofondo costante della nostra vita. La proiezione esterna del conflitto, allora, giunge verso il castello, verso una mèta che ci fa tornare in noi stessi, e che, al tempo stesso è di sottofondo a tutta l'opera con la sua presenza. L'elemento architettonico del castello, dunque, ci riporta ad un simbolismo della mèta e del viaggio, del ritorno in se stessi che è anche uscita da se stessi, verso una roccaforte che ci appartiene, verso un luogo sicuro. Il castello, allora, è il simbolo di Cristo stesso, di quella roccaforte in cui ogni nostro conflitto ritrova la sua pace, il luogo che entra dalla nostra finestra e che ci richiama alla nostra dignità, ma anche alla nostra appartenenza ad un Regno nuovo. Ed è dal castello che sorge una luce nuova, un sole all'aurora che rischiara tutto il paesaggio e che ci lascia intravedere le nostre lotte e le nostre contraddizioni, per amarle e per benedirle, perchè è solo in quel sole che superiamo le nostre notti oscure. In quel sole, simbolo

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