Gesù Cristo sono io?
Dalla menzogna alla giustificazione
Il passo decisivo e
incisivo che permette a Levante di poter dire Gesù Cristo sono io è dato da una lenta presa di consapevolezza.
Già dalle prime parole comprendiamo come dentro la consapevolezza di essere
Gesù Cristo ci stia tanta amarezza e tanta responsabilità. Infatti la canzone
di Levante parla dei maltrattamenti che una donna subisce da suo marito.
Maltrattamenti che non sono sempre chiari e visibili, ma dai contorni sempre
sfumati. Infatti, da una parte la ragazza viene messa in croce mentre dall’altra viene elogiata sempre come regina. Ma anche quando viene elogiata,
in realtà, riceve solo una corona di
spine. Ciò che maggiormente colpisce di questa canzone è sempre questa
ambiguità di fondo di una relazione che vuole essere sanata, che cerca di
superare le discordie e le avversità, ma rimane sempre e comunque vittima della
violenza. Ecco, allora, come ci sono le menzogne
perdonate, le preghiere fuori dalla
porta, il proprio sacro Tempio abbandonato. Sono tutte immagini che ci
dicono una relazione sì fra un uomo e una donna dove lei è costretta sempre in
una posizione di sottomissione. Allora, il simbolo della sottomissione, diviene
l’immagine di un Tempio abbandonato,
ovvero di un luogo sacro che non viene più frequentato. Questa è la prima manifestazione
di una relazione sintomatica, di un disequilibrio che pone l’altro in una
situazione di inferiorità. Curiosamente, proprio il Tempio abbandonato, per il popolo di Israele, è il segno
dell’oppressione e dell’esilio, in quanto il Tempio diviene un luogo che non si
può più frequentare. La relazione mancante con Dio diviene relazione mancata
con l’altro, fino a ridurre l’altro nella posizione di subordinanza, di
inferiorità.
La pazienza e l’arroganza: ricordare solo i peccati
Il secondo luogo di
dominazione è quello di fraintendere le parole. Il porgere l’altra guancia, di chiara derivazione evangelica, diviene
semplicemente il simbolo di una sottomissione giustificata anche dai più grandi
valori. Tanto che se la donna è stata paziente, questa pazienza è solo per
l’arroganza del suo compagno, nulla di più. La pazienza non ha portato ad un
cambiamento dell’altro, ma solo ad un continuo subire, fino a trovare mille e
mille giustificazioni per coprire la violenza insita in quella relazione. Il
secondo sintomo, allora, di una relazione violenta è proprio quello di
confondere i più alti principi con le giustificazioni alla violenza. E la
relazione continua a diventare sempre più violenta, fino a quando ciò che
rimane è solo il rinfacciare i propri
peccati. La violenza, allora, non è più solo fisica ma è anche verbale, è
anche psicologica. Infatti, proprio colei che non ha fatto nulla, diviene la
vittima ma anche la colpevole. A questo punto, diventa sempre più difficile
uscire dal circolo della violenza.
Spine e chiodi: una comunione che diventa violenza
La consapevolezza di
una relazione violenza emerge solo quando riconosciamo che il nostro corpo è
stato martoriato dalle spine del mondo,
da tutti i cuori piantati nel cuore.
La violenza emerge, paradossalmente, quando la donna riesce a dire: Questo è il mio sangue, questo è il mio
corpo. La capacità di poter dire di avere un corpo, di sentire del sangue
che scorre nelle vene, fa emergere anche la consapevolezza che questo corpo e
questo sangue non sono più donati all’altro, ma vittime dell’altro. Riconoscersi
corpo e sangue significa, per la donna, riconoscere di subire delle violenze.
Non esistono più delle giustificazioni, come non esiste più neanche un
chiedersi ma dov’era Dio, perché Dio
stava soffrendo con noi, nel nostro stesso corpo. La donazione di Cristo,
l’esposizione alla violenza diviene riconoscimento del proprio corpo e della
violenza che subiamo. Il grande mistero di questo amore di Cristo è che egli si
fa carico delle nostre stesse violenze, e ci permette di riconoscere noi stessi
anche attraverso la violenza che subiamo e che esercitiamo sugli altri. Nel
corpo martoriato, riconosciamo il corpo stesso di Cristo. Un corpo martoriato
che combacia con il corpo stesso di Cristo. E, se questo è vero, allora non
rimaniamo vittime perché così devono andare le cose, non rinunciamo alla nostra
dignità, ma siamo consapevoli della grandezza del nostro corpo. Proprio qui, in
questo momento, possiamo dire Gesù Cristo
sono io. Non per vantare chissà quale merito, ma perché sperimentiamo che
il nostro corpo subisce la stessa violenza che ha subito il corpo di Cristo. E
che, quella violenza, rimane ancora strumento di ingiustizia e di oppressione.
E non viene giustificata per il solo fatto che l’ha subita anche Gesù. incontrare
Gesù nel nostro corpo martoriato, come nel corpo martoriato di chi c’è intorno,
significa anche riscoprire la nostra capacità di risorgere.
Il tormento nella testa e la resurrezione, oltre ogni
dominio
Allora, riusciamo a
scorgere una nuova verità. La relazione che pensavano di vivere nell’amore era
solo un demonio nella testa. Quella
relazione che ci sembrava amore, in realtà, era solo uno strumento di
oppressione e di infelicità. Infatti, nella tradizione, il demonio è anche
colui che si veste di una luce simile a quella vera ma che, in realtà, non ci
rende figli di Dio ma ci chiude nelle nostre stesse prigioni. Un demonio che ci
spinge ad essere esclusi dal paradiso da cui siamo chiamati, dall’essere
davvero figlio di Dio, e ci spinge a genufletterci, a piegare la testa, ad
essere schiavi degli altri, convinti che questo sia davvero servire gli altri. Così,
il vero discernimento nelle nostre relazioni, diviene la resurrezione. Sono vere solo quelle relazioni che ci fanno
risorgere, quelle relazioni che invadono la nostra vita di una luce nuova,
quelle relazioni che davvero ci rendono felici. Anche se, spesso, è difficile
liberarsi di alcune relazioni che ci fanno male perché siamo troppo legati a
quelle persone o abbiamo paura di rimanere soli, in realtà ci stiamo costruendo
solo delle enormi prigioni, da cui solo la resurrezione di Cristo può
liberarci. Con questo non vogliamo dire che le vere relazioni sono solo quelle
che non portano sofferenza, ma la sofferenza non è mai violenza verso se stessi
per accontentare l’altro. Nelle vere relazioni si soffre sempre insieme e,
insieme, si giunge alla resurrezione. Questo è il vero scoglio per guardare
alle nostre relazioni, alla verità sostanziale di ogni nostra amicizia, come di
ogni nostro amore. Se non c’è resurrezione c’è solo violenza e prigionia.
Ma questa canzone non
ci spinge solo a pensare alla violenza nelle relazioni o alla sottomissione di
genere. Questa canzone ci spinge anche a guardare che rapporto ha avuto Gesù
stesso con le donne. Sono numerosi i racconti, nei Vangeli, in cui Gesù si
sofferma a parlare con delle donne, in cui le libera dai mali che le affliggono.
Basti pensare alla donna siro-fenicia, all’emorroissa, alla Samaritana ma, più di
tutte, a Maria Maddalena. soprattutto a lei, perché con lei Gesù ha uno dei primi
dialoghi dopo la resurrezione. Con lei Gesù parla da uomo risorto, facendosi carico
anche delle sofferenze di questa donna, fino a farla risorgere chiamandola per nome.
Così, tutto questo, ci aiuta a comprendere come in ogni donna vittima di violenza,
come in ogni uomo oppresso si celi il mistero dell’amore di Dio in Cristo Gesù.
Un mistero d’amore che significa farsi carico della violenza dell’altro, per poterlo
aiutare a risorgere. Ecco perché, ciascuno di noi può dire, ancora oggi, Gesù Cristo sono io, perché da te risorgo anche io.
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