Confusianesimo: l’ibrido cristiano?





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Lavare le coscienze o tornare alla coscienza?

Il problema religioso, oggi, si pone con sempre più forza. Anche Caparezza che, come sappiamo, non è proprio affine agli ambienti religiosi, in una delle sue ultime canzoni tratta proprio il tema religioso. La canzone si chiama Confusianesimo e non per niente è inserita nell’album Prisoner 709. Un album che, già dalle prime note, ha l’intenzione di riportare l’attenzione su tutte le prigioni che viviamo. La religione è una di queste prigioni, secondo Caparezza. Per questo, Confusianesimo si apre con le parole: lava le coscienze, per un’anima candida. Ovviamente, l’introduzione si riferisce a tutte le religioni ed è curioso come il problema venga posto a mo’ di pubblicità. Infatti, il lavare le coscienze sembra riprodurre quasi una pubblicità, portandoci dinanzi ad un mercato di religioni non indifferente.

Il problema principale, tuttavia, è se la religione sia uno smacchiatore delle coscienze o una presa in carico della propria coscienza. Ma seguiamo le parole di Caparezza.

Il mercato delle religioni

Non sono pochi i punti di contatto fra la religione e l’economia. Oltre alla celebre frase di Marx, per cui la religione è oppio dei popoli, Caparezza sembra tratteggiare un nesso poco chiaro che esiste nella strumentalizzazione della religione per fini economici. Insomma, molti, col pretesto della religione, delle buone opere e delle buone intenzioni, fanno girare un economia poco chiara, non improntata alla trasparenza. Per questo, ciascuno cerca di costruire una religione a proprio uso e consumo, non semplicemente in termini metaforici ma economici. Si viene ad instaurare, così, un mercato di religioni, dove ciascuno sponsorizza la propria spiritualità, cercando forme di ritorno alle origini, di millenarismo o di assimilazione alla natura. Il problema, allora, non è più solo di denaro, ma di settarismo e di rifugio delle persone in strutture forti, che diano sicurezza in un mondo instabile e continuamente minacciato. Possiamo comprendere, allora, come la paura giochi un ruolo cardine nell’elaborazione di queste religioni. E la paura svolge un duplice ruolo: da una parte crea le condizioni per l’affidamento ad una personalità carismatica e dall’altra propone vie nuove e assolute di liberazione dalla paura stessa. Insomma, viene creata una paura ma anche la speranza della sua rimozione. Allora, la religione diviene una vera e propria prigione, come ci racconta Caparezza.

Questa dinamica della paura genera, poi, il desiderio di sottomissione della propria libertà. Per dirla con le parole di Caparezza: voglio un culto da osservare per essere libero di privarmi della mia libertà. La religione, allora, generando meccanismi di paura, produce anche controllo, un ministero dell’interno, un organo di governo interiore che rispecchi quello che dice il leader carismatico. Sembra come se la paura ci svuoti della nostra autonomia per farci assumere la volontà di qualcun altro, di chi ne sa più di noi, di chi è più sicuro di noi, di chi ha la soluzione in tasca. Insomma, la religione si rivela un vero e proprio strumento di controllo delle masse, come anche delle coscienze singolari.

La guida, la Scrittura, la conversione

Seguendo il ritornello della canzone di Caparezza, possiamo riscontrare una differenza rispetto a tutte le altre strofe. Infatti, mentre nelle strofe della canzone abbiamo una satira divertente e pungente su tutte le religioni, in maniera indifferente, nel ritornello ci sono elementi comuni ad alcune religioni: la guida, la Scrittura, la conversione. Prima abbiamo la citazione di diverse guide religiose, poi abbiamo la citazione delle scritture religiose, infine, quei riti di purificazione presenti in ogni religione. Sembra, allora, che la maggior parte delle religioni si nutra di questo: di una guida, di un testo scritto, di una ritualità. In effetti, ritroviamo elementi simili nella maggior parte delle religioni, ma cedere ad un sincretismo religioso non porterebbe a nessuna soluzione. Infatti, il problema non è accettare ogni religione in nome di una tolleranza placida e neutrale, ma si tratta da una parte di riconoscere cosa ogni religione ci voglia dire e dall’altra avere un approccio critico nei confronti di ogni religione. Infatti, guardando agli elementi comuni in ogni religione, possiamo notare come il fondamento sia sempre e comunque quello di una relazione con il divino, con Qualcuno di superiore e che è possibile riconoscere attraverso i doni che fa. La maggior parte delle religioni che ha elementi comuni si fonda proprio sul riconoscimento di un Dio che dona all’essere umano la vita e anche il mondo in cui è posto. La guida, infatti, serve a testimoniare tutto questo, il testo scritto a fissare il dono che Dio fa all’umanità, i riti servono all’umanità per tornare ad una relazione con Dio. Questi sono i primi elementi che ci mettono in una interpretazione critica di ogni religione. Infatti, se ogni religione è una forma di relazione con il divino, non possiamo più cedere ad una religione basata sulla paura e sul desiderio di liberazione da essa. Insomma, se abbiamo bisogno di una religione, non è perché abbiamo paura della nostra sopravvivenza, ma perché abbiamo bisogno di entrare in relazione con Colui che ci ha donato la vita. Una religione della paura, allora, può essere utile per governare le masse, per costruire un ministero dell’interiorità, ma non per permettere ad ogni essere umano di entrare in relazione con Dio.

Il discriminante: la vita

Dinanzi a questi elementi comuni ad ogni religione, ci chiediamo quale sia il fine di ogni religione. Perché è il fine di ogni religione che ci permette di valutare una autentica esperienza spirituale. Il discrimine, paradossalmente, ce lo da proprio Caparezza. Infatti, quando parla di alcune esperienze religiose, le mette in relazione con la morte. C’è chi recita il sutra del loto e poi si butta nel vuoto, oppure chi raggiunge il Nirvana, non il loro leader. Ci sono dell’esperienze religiose che hanno come fine la morte e l’autodistruzione, in nome di un essere superiore. Ora, per entrare sempre più nella questione, cerchiamo di fare una differenza fra l’esperienza religiosa e l’esperienza spirituale. Per esperienza religiosa, intendiamo qualsiasi esperienza che ciascuno può dire di aver fatto di Dio, dalle visioni mistiche alla fusione con la natura. Insomma, nelle esperienze religiose mettiamo ogni forma di esperienze divine che l’essere umano può fare o, meglio, tutte quelle esperienze che l’essere umano dice di fare di Dio. Per esperienza spirituale, invece, intendiamo tutte quelle esperienze che l’essere umano fa di Dio e che implicano una relazione con lui. Infatti, se utilizziamo questo primo elemento discriminatorio, ci accorgiamo, che non tutte le esperienze religiose sono esperienze spirituali. Fra le due esperienze, religiosa e spirituale, il discrimine che riporta, indirettamente, Caparezza è la vita. Citando il massacro di Jonestown, in cui 911 persone si suicidarono per ordine del reverendo Jim Jones a chi si butta nel vuoto, passando per il gregge di Pietro che si percuote con chiodi e schegge di vetro, comprendiamo bene come la differenza sia sempre la vita. Non possiamo pensare che ci sia un dio che ci dona la vita e poi ci chieda di rinunciarci in nome della religione stessa. Ecco, allora, come la critica per guardare ad ogni esperienza religiosa sia quella della salvaguardia della vita. Solo una esperienza religiosa a favore della vita umana può essere detta una esperienza spirituale. Tutte le altre sono un chiara manipolazione delle coscienze e una schiavitù per ogni essere umano. Il principio critico per distinguere una esperienza religiosa da un’esperienza spirituale, allora, è la vita in tutte le sue forme.

Domanda di credo, il bisogno spirituale da colmare

Guardando alla vita, poi, ecco che Caparezza ci spinge ad ascoltare la domanda di fondo di tutta la nostra esistenza legata alle forme religiose. La vera domanda che si nasconde dietro ad un’esperienza spirituale autentica è sempre il bisogno spirituale da colmare, che si confonde come un poco d’acqua in mare. Ciascuno di noi, prima o poi, percepisce nella vita la propria mancanza. Non facciamo tanto i conti con i nostri limiti, i quali possono essere superati, per la maggior parte delle volte. Ciò con cui davvero facciamo i conti, nella maniera più profonda, è la mancanza. Possiamo fare tutto, possiamo essere chi vogliamo, possiamo diventare gli uomini e le donne più famosi del mondo, ma ci sarà sempre qualcosa che ci manca, un quid che nessuna cosa al mondo potrà colmare. Per questo, potremmo essere soddisfatti per qualche tempo, per un periodo della nostra vita, ma poi faremo i conti sempre e comunque con la nostra mancanza, con ciò a cui non riusciamo ad arrivare. E, quando facciamo i conti con le nostre mancanze, ecco che si apre dinanzi al noi il bisogno spirituale. Riconosciamo, allora, che non possiamo pensare ad una vera esperienza spirituale che si basi sulla paura e sulla liberazione della paure. In realtà, la vera liberazione consiste nell’attraversare le proprie paure, con l’aiuto della religione. Ma la liberazione-attraversamento delle paure è solo una piccola parte di una vera esperienza spirituale, in quanto la vera esperienza non è solo una liberazione da ma una liberazione di. Il bisogno spirituale dal colmare, allora, diviene un bisogno di liberazione di ovvero di raggiungere una pienezza e una unicità che questo mondo non riuscirà mai a darci completamente. Ci sono alcune esperienze religiose che possono attenuare il problema della mancanza, altre che pensano di poterlo esorcizzare parlando di una pienezza nella proiezione in un aldilà. Tornando al mercato religioso, ci sono diversi modi di allontanare la mancanza dalla nostra esistenza e ciascuno può scegliere la forma che più gli piace. Ma il problema, tuttavia, rimane sempre e comunque, perché il bisogno spirituale si confonde come un poco d’acqua in mare. Il bisogno spirituale emerge sempre e comunque, rimane lì, celato nella grande marea di tante cosa da fare o da progettare, ma rimane comunque un elemento inscindibile dalla nostra vita.

Confusianesimo: un cristianesimo ibrido?

Guardando alla scienza dietro le religioni, ovviamente Caparezza non si riferisce ad una scienza di tipo positivista, ma ad una elaborata macchinazione di controllo e di manipolazione: il testo epico e l’impianto scenico. Ed è questa scienza che, in sostanza simile a tutte le religioni, crea nuove barriere e nuove prigioni. Se questa è la conclusione a cui si spinge Caparezza, noi cerchiamo di fare un passaggio ulteriore. Prendendo come vero che ci sono dei meccanismi e delle deviazioni di stampo religioso fra cui allucinazioni o perversioni anche di stampo sessuale, ci sono però anche elementi di ragionevolezza che ci permettono di vivere una esperienza spirituale anche di tipo critico. Insomma, non è possibile mettere sullo stesso piano tutte le religioni di questo mondo e trattarle tutte come vere in nome di una tolleranza senza pensiero. La critica serrata e la nostra capacità di ragionare ci possono aiutare a riconoscere i semi di Dio presenti in ogni esperienza spirituale. Ma per far questo, ci occorre entrare in un circolo ermeneutico di fede e intelletto, che già proponeva Agostino. Se molti usi dell’esperienza religiosa possono mettere in atto un vero e proprio lavaggio del cervello, il binomio fede e intelletto ci può aiutare a purificare sempre più la nostra esperienza spirituale. E qui la fede diviene l’elemento che ci permette di gustare Dio ci farci vivere una relazione personale con lui, mentre l’intelletto ci aiuta a riconoscerlo presente nella storia personale. Non si tratta solo di dar ragione, in termini quasi apologetici, della propria fede, ma di distinguere il vero Dio dai nostri simulacri, dai nostri idoli. In questa prospettiva, ci risulta abbastanza facile notare come lo sbocciare sempre di nuove forme religiose sia dato da uno scarso uso della fede e dell’intelletto.

Qui, ora, giungiamo al nostro spartiacque, alle soglie della nostra fede in Cristo. Infatti, Cristo stesso non è solo il capo di una religione, ma è anche colui che ha detto di essere il Figlio di Dio. In nessun’altra religione, il fondatore dice di avere questa relazione così intima con Dio. Tutti si fanno chiamare: maestri, emissari, inviati, guide, ma nessuno ha mai detto di essere il Figlio di Dio. Allora riconosciamo come l’esperienza religiosa di Cristo assuma dei connotati tutti particolari, ma anche che non tutte le esperienze religiose di Cristo possono essere delle esperienze spirituali di Cristo. Infatti, se il discrimine rimane sempre la vita, allora la prospettiva è nel vivere come Cristo, non tanto in senso morale quando nella sua resurrezione, nella vita nuova. La fede in Cristo ci permette di entrare nella relazione vitale con Dio, di vivere un’esperienza di Dio che trasforma tutta la nostra vita. Ed è questa fede che invoca a sé l’intelletto, ovvero il guardare a come Cristo sia già presenti e trasformi tutte le altre esperienze spirituali autentiche. Per dirla in altre parole, non occorre che qualcuno si dica cristiano per vivere come Cristo, ma che viva una vita nuova, che viva il passaggio da morte a vita, che sia radicato nella propria storia come l’incarnazione di Cristo ci ha rivelato, che viva di quell’amore che dona tutto se stesso, come Cristo. Ecco, perché Cristo Gesù può essere la chiave ermeneutica di ogni vita umana e di ogni esperienza spirituale, fino alla elaborazione di un ibridismo cristiano dove non assimiliamo Gesù a tutti gli altri profeti o emissari, ma lo ritroviamo come relazione vitale in ogni altra forma di vita, in ogni autentica spiritualità che guardi e generi alla vita. Senza più barriere, senza più prigioni.

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