Ripensare e rifondare una città: riti per la città globale




L’antro come mito d’origine
Una delle maggiori sfide della nostra società è quella di ricomporre il tessuto filosofico con quello architettonico. Dopo che la città ha subìto tutta una serie di frazionamenti, depauperamenti, polarità, grumi di violenza, oggi ha bisogno di essere ripensata, non solo per ripensare una forma della città, ma per ripensare la nostra relazione con la città e, quindi, la nostra relazione politica con gli altri. Ripensare la città, allora, significa ripensare noi stessi, in quella relazione che, come vedremo, sussiste già dal Quattrocento fra microcosmo e macrocosmo. Nel 2015, Franco Farinelli ha scritto un articolo per la rivista Urbanistica, dove traccia un percorso per ripensare la città, partendo dalle origini mitiche della città, fino a giungere alle prospettive e alle potenzialità di una città plurale.
Il punto di partenza di Franco Farinelli è quello dell’origine mitica della città. Guardando a tutti i racconti fondativi di una città, abbiamo un filo rosso che li collega tutti che è quello dell’antro. Ogni racconto nasce da una caverna. La storia stessa dell’umanità nasce da una caverna, non intesa semplicemente come elemento fisico o strutturale, ma come elemento simbolico. La caverna, infatti, è il simbolo stesso della nascita, è l’antro oscuro da cui giungiamo alla luce, l’oscura cavità in cui sono presenti le divinità dell’origine. Lo stesso Mito della caverna di Platone è raccontato all’interno della Repubblica, dove il Filosofo parla della città e delle forme di governo. Ma l’antro oscuro ricorda anche l’utero femminile, il grembo da cui nasce la vita e in cui si nasconde il mistero stesso della vita. Per questo come l’uomo, anche la città, come prodotto umano, nasce da un antro oscuro.
Il ritualismo fondativo di una città: effetto Polifemo
Oltre i due esempi che abbiamo già riportato, Farinelli si sofferma soprattutto su un altro mito d’origine: l’Odissea. In questo racconto, uno dei primi racconti epici, Ulisse si sofferma, per una breve sosta, nell’antro di Polifemo. Nella sua sosta, ecco che il gigante chiude l’antro per non far scappare Ulisse e i suoi uomini, con l’intento di mangiarli. Ecco, allora, che con la sua astuzia, Ulisse fa ubriacare Polifemo. Mentre il gigante è addormentato, ecco che lo acceca con un palo rovente, conficcando il legno nel suo unico occhio. Polifemo accecato cercherà di aprire l’antro della sua caverna per catturare Ulisse al momento della sua uscita dalla caverna. Ma con un altro abile stratagemma, Ulisse con i suoi uomini riescono a fuggire, lasciando a Polifemo l’ultimo attestato della sua beffa, il suo stesso nome: Nessuno. Tuttavia, ciò che ci interessa è come nell’antro stesso, l’unica via d’uscita sia partita proprio dal conficcare il palo rovente nell’occhio di Polifemo. Scrive, a proposito, Farinelli:
Rykwert riporta il brano del Corpus Agrimensorum in cui si descrive la forma più antica dell’installazione di un terminus, di un cippo di confine: prima si scavava una fossa, poi si poneva sul terreno accanto ad essa il cippo in verticale, lo si consacrava e incoronava con nastri e ghirlande, quindi si celebrava un sacrificio nella buca, si ardeva la vittima con un tizzone versando il suo sangue e altre offerte e alla fine, dopo che il fuoco aveva divorato tutto, s’introduceva il cippo stesso poggiandolo sui resti ancora fumanti, disponendo intorno ad esso delle pietre per colmare la cavità in maniera tale da assicurare la massima saldezza all’impianto. Lo stesso Rikwert sottolinea l’affinità tra il rito celebrativo all’atto della fondazione della città con la formazione del mundus e quello relativo all’erezione dei cippi di confine.[1]
Riprendendo Rykwert, Farinelli ci introduce in un rito che è quello della fondazione di una città. Se nel Corpus Agrimensorum, il rito viene esplicitato con termini tecnici, nel racconto dell’Odissea abbiamo un linguaggio mitologico. L’azione di infilare un palo per terra, di bruciare delle vittime e di spargere il loro sangue è presente nella maggior parte dei riti fondativi di una città. Ed è ciò che avviene con l’accecamento di Polifemo. L’antro di Polifemo, allora, diviene l’origine di una città dove l’essere umano mette un punto fermo dinanzi all’abisso. Questa è la fondazione di una città: dinanzi al caos imperante e alle relazioni distrutte, ecco che viene messo un punto fermo. Non è un caso, allora, che nella Scrittura, il primo a fondare una città è Caino: colui che ha vissuto la distruzione delle relazioni più profonde e ha cercato di mettere un punto fermo, un terminus. Ciò che è interessante nella storia stessa di Caino è come egli abbia fatto esperienza del suo abisso, del peccato accovacciato alla sua porta, tanto da uccidere il proprio fratello, tanto da violare quei legami inscindibili di sangue. Se vogliamo, questa è anche la storia di Romolo e Remo, dove l’evento fondativo di una città coincide con l’uccisione del proprio fratello. Ovviamente, non possiamo mettere in relazione l’uccisione compiuta da Caino con quella compiuta da Romolo, in quanto appartengono a due aree culturali molto diverse. Tuttavia, i racconti sembrano dirci che la fondazione di una città coincide con l’esperienza che l’essere umano da del proprio abisso. L’antro delle origini, allora, viene “tradito” dal terminus, da un punto fisso.
Le città globali: la filosofia della cosmopoli
E dal mito delle origini, giungiamo alla concezione di città globale. Nel suo articolo, Farinelli tralascia tutta la storia della città in quanto non ci occorre ristabilire una origine storica della città globale, ma ricondurla alla sua genesi. Infatti, la genesi di una città è ci permette di ripensare la città stessa, di guardarla con gli occhi dell’origine, dove questa origine è dentro la relazione dell’essere umano con la città stessa. Ecco perché non ci interessano, in questa sede, i processi che hanno portato alla formazione e alla forma delle città stesse, quanto la relazione che si è venuta a creare fra l’essere umano e la città. E nel contesto plurale in cui noi viviamo, non possiamo non pensare alla città globale nelle relazioni multiformi e plurali. Per questo, la città globale è una città in cui si realizzano tutte le tensioni plurali dell’essere umano e non più una città monoidentitaria, costruita attorno alla sola fontana del villaggio o all’ombra del campanile. La città globale si ritrova ad essere uno snodo economico, di relazioni complesse, di infrastrutture urbane, di complessità di servizi e di gestione amministrativa. Ripensare la città globale, allora, significa ristabilire quella relazione fra macrocosmo e microcosmo, per non perderci nei meandri di questa stessa città. Scrive Farinelli:
La città globale che sparisce del tutto all’inizio dell’epoca moderna era invece tale in virtù della sua intensione, delle caratteristiche necessarie alle sue componenti, nel senso dunque della connotazione: auto-centrata e impostata sulla corrispondenza e analogia tra microcosmo e macrocosmo, fondata cioè sul medesimo ordine dell’universo, macchina simbolica sistematicamente funzionale all’identificazione e alla memoria, universo essa stessa fatte le debite proporzioni, congegno ricorsivo prima ancora che spaziale. La filosofia inizierà quando si tratterà di pensare questa città, la città che consapevolmente rispecchia un mondo e la sua concezione, la cosmopoli. Tutta la filosofia è cioè nient’altro che il pensiero di questa città, quella cui Platone si riferisce nel Timeo. È per pensare questa città globale che Platone inventa l’espressione “l’occhio dell’anima” (psiche), ovvero della mente (dianoia; Simposio 219 A 2; Repubblica 519 B 3). E in tal modo la città, autentico sistema politico-cognitivo diventa, con una mossa che durerà almeno fino alla fine del ‘500 (Tasso 1875), l’immagine ingrandita dell’anima (della mente) e della sua struttura (Repubblica 580d): soltanto per tal via essa può svolgere la principale funzione che le è propria, quella di giunzione tra l’individuo e il cosmo.[2]
Ripensare la città globale significa ripensare la nostra stessa relazione con la città all’interno secondo la dialettica fra macrocosmo e microcosmo. Dialettica nel senso di reciproca e vitale relazione con la città. Per dirla in altri termini, se non riusciamo a riconoscere nella città le nostre stesse relazioni e la nostra stessa fisionomia, rischiamo di rimanere alienati dalla città in cui viviamo. Ma l’alienazione deriva dalla prospettiva inversa, ovvero nel non riconoscere se stessi come protagonisti all’interno della città e non riconoscere la città stessa come espressione della alienazione dal proprio sé. Insomma, la spersonalizzazione della città è un prodotto e una accentuazione della spersonalizzazione che viviamo sulla nostra stessa pelle. Spersonalizzazione che avviene non semplicemente perché la città è troppo complessa per essere capita, ma perché non proviamo neanche a cercare di capire. Siamo dinanzi ad una città senza pensiero, ad un essere umano senza pensiero. Ed è in questa assenza che dilagano tutti i poteri che subiamo.
Polifemismo e poliloghismo: l’esperienza di Pentecoste
Ritornando alle origini della città, all’antro originario da cui bisogna uscire per ritrovare un pensiero, per iniziare a dare forma al nostro microcosmo e al grande macrocosmo, ripartiamo da Polifemo. Con un gioco di parole, in greco, Polifemo può indicare il poli-femì, dove femì indica il dire e il poli indica sia la pluralità sia la città. Polifemo sembra racchiudere, allora, la fondazione di una città che è di per sé plurale. Il dire la città è il dirla in molti modi, e sono i molti modi che dicono la città. Ed oltre tutti i nostri tentativi di poter trovare un common language, un linguaggio comune alla città, falliscono sempre e comunque miseramente. Paradossalmente, più tentiamo di fare sintesi in una città, di dare una omo-logazione del linguaggio, più creiamo il senso opposto del caos e della incomprensione. Parallelamente a Polifemo, fatte le debite eccezioni, possiamo rileggere in questo senso l’esperienza di Babele. Una sola lingua comune con cui gli esseri umani hanno voluto costruire una torre per arrivare fino a Dio. E più salivano, più non riuscivano più a comprendere cosa dicevano, più salivano più la loro lingua rischiava di diventare omologante, assimilando la Terra al Cielo. Allora Dio, in quel momento, ha fatto all’essere umano uno dei più grandi regali della storia: ha confuso le lingue. Dove la confusione delle lingue significa pluralità, molteplicità, tentativi nuovi di ricomprendersi e riconoscersi. Ebbene, oggi la città globale è la Nuova Babele, dove le lingue e i linguaggio si confondono e si moltiplicano, dando nuovi sensi e nuovi significati. In questa prospettiva, però, possiamo ricomprendere il dono dello Spirito, a Pentecoste.
Se in una lettura biblica, la Pentecoste è il dono dello Spirito agli apostoli, che gli permette di essere compresi in più lingue, molto di più il dono dello Spirito, oggi, può essere questo per noi. Tuttavia, la discesa dello Spirito sugli apostoli ci fa rendere conto che gli apostoli non parlano lo stesso linguaggio degli altri, e gli altri non si omologano al linguaggio degli apostoli. La comprensione non è omologazione di linguaggi, ma apertura di orizzonti. La comprensione è dia-logica, non omo-logica. Ed è dia-logica perché interessa una pluralità di linguaggi, una poliloghia. Se Polifemo, allora, indicava il polifemismo della città, l’utilizzo di molti linguaggi, nella Pentecoste abbiamo una nuova fondazione rituale, dove i discepoli escono dal loro antro per dia-logare con tutti gli esseri umani, dove ognuno comprende l’altro perché riesce ad entrare nel linguaggio dell’altro e non perché l’altro deve entrare nel mio linguaggio. Questa è la Pentecoste, questo è l’allargare gli orizzonti, questa è l’evangelizzazione della e nella città globale, dove il mio macrocosmo mi permette di lanciarmi oltre, nel macrocosmo. E il dire la città, diventa vivere la città.



[1] F. Farinelli, Per ripensare la città globale, Urbanistica 156(2015), INU Edizioni, p. 17.
[2] Ibidem.

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