Bergson, dall’automatismo alla libertà



Nell’ultimo numero della rivista lo Sguardo sul pensiero di Henri Bergson, troviamo un articolo molto interessante di Federico Leoni sulla questione bergsoniana dell’automa. Sappiamo già come al centro della riflessione di Bergson ci sia sempre il tempo e la libertà. Dove il tempo è visto nella sua duplice accezione di temps e duree. Ed è la percezione che noi abbiamo del tempo che ci permette di giocarci la nostra stessa libertà. Ora, la questione esaminata da Leoni è quella dell’autos ovvero di un organismo che si muova da se stesso, che non abbia un tempo da rispettare o, meglio, che non si muova semplicemente nel tempo ma che egli sia il suo stesso tempo. Ovvero, l’automa è quell’essere totalmente libero in quanto totalmente spontaneo, in quanto dà da se stesso il suo tempo.
Un’immagine plastica che utilizza Bergson per parlare dell’automa è l’ameba, ovvero una piccola massa di protoplasma, che non ha un corpo inteso come organizzazione degli organismi, ma ogni volta fa emergere da sé l’organismo che le occorre. L’ameba, infatti, si muove nello spazio attraverso una continua serie di costruzione di organi, attraverso la spontaneità dei propri organi. Questo corpo è l’essere vivente meno evoluto. Ora, se l’essere meno evoluto è colui che produce da se stesso i propri organi senza una organizzazione degli stessi, ma sempre inserito in una continuità produttiva dei proprio organi, la seconda figura che utilizza Bergson è l’insetto.
Passiamo, quindi dall’ameba all’insetto non tanto come animale fisico, ma come elaborazione concettuale del grado evolutivo. Infatti, per Bergson, l’insetto ha già un esoscheletro, una struttura che gli permette di organizzare la sua vita attraverso una serie di organi. Gli insetti, infatti, sono per metafora tutti quegli esseri che possono badare a se stessi, che possono esprimere le loro funzioni attraverso il loro esoscheletro. Tuttavia, il grado evolutivo in questo momento ci spinge a notare come gli insetti siano quegli animali che hanno un esoscheletro funzionale alla loro vita. Perciò, l’esoscheletro degli insetti è la loro funzione, ovvero gli insetti sono i loro strumenti. Tutto ciò che occorre all’insetto è presente nella organizzazione del suo esoscheletro, nulla di più. L’evoluzione, infatti, soprattutto per quanto riguarda gli insetti e tutti gli animali, già secondo Darwin, funzionava in questo modo: sopravvivevano quegli animali in grado di sviluppare delle funzioni migliori nel loro corpo, mentre si estinguevano tutte quelle altre specie che non avevano una funzione corrispondente all’ambiente in cui vivevano. Ma è qui che si trova la differenza fra tutti gli organismi e l’essere umano. Scrive Federico Leoni:
Coscienza è esitazione mentre organismo è automatismo, organismo è movimento continuo, movimento ininterrotto, movimento che si dispiega nella continuità. Coscienza è esitazione perché coscienza non è altro che l’accadere di una distanza che spezza l’azione automatica in due blocchi, o, meglio, che spezzando l’azione automatica produce quelli che appariranno, solo a quel punto, come due blocchi, i due blocchi dalla cui sintesi l’azione automatica sembrerà essere scaturita. Appariranno così, da un lato la dynamis, dall’altro lato l’entelechia. Da un lato la serie dei possibili, dall’altro quel singolo possibile che si realizza.[1]
Il cammino evolutivo, sembra suggerirci Bergson, fa un passo in avanti nel momento in cui c’è un nuovo organismo che spezza la continuità del tempo. Se l’ameba e l’insetto erano due organismi che si muovevano nella continuità del tempo secondo il proprio grado evolutivo, la coscienza produce una frattura nel tempo, uno iato che genera due blocchi. Nel primo blocco ci sono tutte le possibilità del tempo, tutto ciò che sarebbe potuto succedere in una pluralità di linee temporali. Dall’altra parte c’è l’unica possibilità che si realizza, l’unico fine a cui giungono tutte le miriadi di possibilità. Ora, lo iato fra le possibilità e il fine è possibile proprio in quanto la continuità del tempo viene spezzata. Solo così, dunque, il tempo diviene altro dalla sua durata, diviene un tempo vissuto dall’unico, dall’individuo. In altre parole, è proprio nella coscienza che si rivela la libertà dell’essere umano, in questa frattura che genera una pluralità di possibilità e la realizzazione di una di queste possibilità si colloca la libertà intesa sia come esitazione sia come scelta. Esitazione in quanto la libertà si colloca dinanzi alla pluralità delle possibilità, scelta in quanto pone in essere solo una di queste possibilità.
Ed è proprio nell’essere umano che questa libertà, fra esitazione e scelta, trova la sua forma in un tempo discontinuo. L’essere umano, quindi, che se avesse seguito la prospettiva darwiniana si sarebbe già estinto da un pezzo, riesce ad essere umano proprio in quanto è un essere esitante, in quanto la coscienza rompe la linea continua del tempo e lo colloca dinanzi alla sua libertà. Ed è qui, in questa frattura che si insinua qualcosa nell’essere umano che è molto più di se stesso, molto più di una continuità evolutiva nel tempo. In questa frattura si colloca il mistero di un essere umano che è dinanzi alla sua libertà, o meglio la libertà stessa diviene mistero dell’essere umano, il nostro più grande mistero. Se non avessimo avuto questa esitazione non avremmo scoperto la nostra coscienza, non avremmo avuto la possibilità di riflettere e di scegliere. Per questo, la libertà diviene mistero. Un mistero che, nelle nostre scelte, acquista spessore, diviene pesante e pensante. Un mistero che ci apre a qualcosa dopo di noi, ad una Coscienza maggiore di noi stessi, una Libertà più grande, una Vita oltre di noi, attraverso cui noi stessi ci realizziamo e realizziamo noi stessi. In altre parole, ci apriamo al mistero di Dio, che ci pone dinanzi alla nostra libertà.


[1] F. Leoni, L’automa. Tempo della natura cioè natura del tempo, in Bergson dal vivo, Lo Sguardo, 26(2018), p. 31.

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