Gli archeologi di de Chirico
Una delle opere più
famose di Giorgio de Chirico è, senza dubbio, Gli archeologi. In realtà, le opere che de Chirico chiama Gli archeologi sono molte, per questo
potremmo parlare di un ciclo di opere. Quella su cui ci fermeremo noi è del
1968, una delle ultime. La scena si presenta, quasi sempre, una sorta di luogo
metafisico, di meta-luogo. Un luogo che non può essere descritto in un tempo e
in uno spazio bene definiti, ma è sempre un luogo che eccede il tempo, un luogo
che va oltre lo scorrere stesso del tempo. Tuttavia, è un luogo esiste, un
luogo naturale, un luogo che, in qualche modo, c’è. All’orizzonte, infatti, vediamo
delle montagne, un celeste che sembra lasciare il posto ad un’aurora o una
notte che sembra avanzare sul tramonto del sole. Le tonalità chiare ci
suggerirebbero, però, che si tratti più di un’aurora che di un rosso tramonto.
Tuttavia, ciò che ci interessa maggiormente è che i due manichini sono in un
meta-luogo esistente, un luogo che supera il tempo ma che vive una sua temporalità
reale. Per dirla in altre parole, i manichini sembrano collocarsi in un luogo
che supera lo scorrere del tempo, ma non la realtà stessa del tempo. E se questo
è lo sfondo, i due soggetti che ritroviamo dinanzi esprimono se stessi molto
più del luogo o, meglio, danno al luogo un significato ben preciso. Infatti, il
luogo non è un luogo qualunque, non è un non luogo, proprio perché i due
soggetti insistono sulla scena, proprio perché i due soggetti, i due archeologi
ci sono. E sono due manichini dalle sembianze umane, sembianze che ricalcano
non solo la costruzione di ogni metafisica, ma anche la metafisica in sé, il
suo poter parlare di ciò che provano tutti gli uomini e le donne in quanto
appartenenti all’essere. I due manichini, quindi, ci raccontano uno
spartiacque, un essere sospesi fra la il contingente e il trascendente, ovvero
nello spazio del simbolico. È proprio qui che si colloca la metafisica in grado
di poter parlare raccontare qualcosa di tutti a tutti.
Inoltre, i due
manichini non sono messi a casaccio, ma assumono delle posizioni particolari,
una fisiognomica sospesa fra il contingente e il trascendente. Questa
fisiognomica metafisica, ci permette non tanto di conoscere i volti, quanto di
riconoscere i gesti dei due, l’abbraccio. Un manichino abbraccia l’altro,
mentre l’altro tende il palmo verso di noi spettatori dell’opera. Una mano che
si tende e si apre in segno di accoglienza, in segno di aiuto. Ecco, penso che
questi due siano i gesti più metafisici per descrivere l’amicizia. L’abbraccio
come simbolo della complementarietà dei due e la mano aperta come simbolo
dell’apertura inclusiva dell’amicizia. Questi sono i due gesti metafisici
dell’amicizia, gesti simbolici che ciascuno di noi può riconoscere fra amici. E
se ne manca uno, possiamo affermare che l’amicizia stessa non è sana. Infatti,
se mancasse l’abbraccio non avremmo amicizia in quanto mancherebbe l’intimità
dei due, la profondità che costituisce entrambi, che costruisce il vissuto di
entrambi, l’uno con, per e nell’amico. Inoltre, se mancasse l’apertura della
mano, l’inclusività, non avremmo amicizia ma possessione dell’altro, chiusura
di una relazione duale, non solo senza generazione ma addirittura senza
possibilità di sopravvivenza. Poiché l’amico è quella relazione che permette
l’inclusività di tutte le altre relazioni, da quella di coppia a quelle
sociali, perché l’amicizia ci permette di cercare l’altro nella profondità e
nell’inclusione.
L’amicizia, poi, ci
permette di entrare in questo tempo sospeso, che non è un tempo statico ma un
tempo di apertura del contingente al trascendente. Il tempo metafisico,
infatti, non esclude il contingente o il trascendente, ma apre l’uno all’altro,
il qui e ora all’eterno. È questo lo fa solo l’amicizia in quanto l’amico ci
permette di uscire da noi stessi, riconoscendo noi stessi nell’altro, nel
nostro amico. Direbbe il Libro del Siracide: come uno è così sarà anche il suo amico (Sir 6,17), non perché i
nostri amici sono coloro che hanno i nostri stessi gusti, ma perché gli amici
sono coloro che ci permettono di riconoscere l’io personale e il tu amicale. E
in questa alterità metafisica, l’amico è la nostra porta ontologica affinché
l’Altro venga nella nostra vita. E la riempia.
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