Ripensare lo spazio, ripensare l’esistenza
Parlando della
trasformazione delle città, Fulvio Adobati nell’Urbanistica
informazioni del 2011 parla di ri–mappare la città come ri–conoscimento
della città post–moderna. La maggior parte degli studi di urbanistica e
sociologia, hanno visto la città come qualcosa in continua trasformazione e
interconnessione. In particolar modo, l’urbanistica ha privilegiato una visione
di città diffusa, capace di funzionare per connessioni e infrastrutture,
piuttosto che come centro identitario. Il grande passaggio alla post–modernità,
in urbanistica consiste nel passaggio da una città con delle funzioni e delle
connessioni ben definite, ad una città aperta, continuamente modificata e
modificabile nelle sue forme. Direbbe Bauman, una città liquida. Tuttavia, ciò
che in urbanistica conta maggiormente in questo passaggio é la ripresa dell’idea
di spazio. Scrive Adobati:
Se la densità spaziale del costruito ha sempre costituito
una componente fondamentale per la comprensione e il governo della città e per
sue regole di funzionamento, oggi il concetto sfuma e si ripresenta sotto altre
forme, l’intensità d’uso dello spazio é discontinua e poggia su geografie mutevoli.
La lettura della complessità dell’urbano é operabile su “stati misti in
transizione”, ed é questa processualità l’essenza della realtà urbana. Proprio
queste transizioni spostano il fuoco dell’attenzione dal confine alla zona
intermedia, dove la consistenza delle cose é più nell’interazione che nella
sostanza, nel divenire più che nell’essere (Rossi 2014). Ed é il connettivo, l’“in
between”, che dà forma alla città.[1]
Lo spazio, dunque, non
é più solo il riscontro dell’idea dell’essere umano, il luogo passivo che
rivela una precisa concezione antropologica e sociologica. Lo spazio inizia ad
essere qualcosa di altro, qualcosa che non solo é modificato dall’essere umano
ma che modifica l’essere umano stesso. Lo spazio, allora, inizia a diventare
attivo nella elaborazione del pensiero umano. L’uso dello spazio, dunque, in
cui si predilige ancora la città compatta e il riempimento dei vuoti e dei
luoghi abbandonati della città più che una espansione urbana, pone dinanzi
delle sfide sullo spazio inteso come organismo in cui si compenetrano natura e
cultura. E l’essere umano costruisce il proprio spazio proprio in between,
in mezzo, fra il riconoscimento degli ecosistemi presenti sul territorio e la
propria cultura storica di tutela dei luoghi. In questo essere in mezzo, in
questa progettazione non solo di infrastrutture che colleghino la città con le
sue varie forme e le funzioni, si viene a creare un nuovo modo di pensare lo
spazio. Dove lo spazio non é la città decisa dall’alto ma in cui i
cittadini si sentono e prendono parte alle trasformazioni della loro città. La
grande sfida oggi é proprio questo sviluppare progetti che partano dal basso,
che facciano essere i cittadini più attenti alla loro città, perché lo spazio
da loro abitato é una energia che trasforma la loro stessa vita, umanizzandola
o alienandola. Ecco, allora, cosa é lo spatial thinking, il pensare
lo spazio.
Una narrazione che ne faccia emergere i tratti profondi che
esistono, e resistono, sotto le trasformazioni, può rappresentare una matrice
interessante per dare forma e riconoscibilità, non bordi, alla città
contemporanea? L’evidente difficoltà di governare le trasformazioni urbane, o
ancora la difficoltà di collocarle entro una descrizione pertinente ed
efficace, pone da tempo come velleitario l’esercizio della pianificazione in
forma regolativa predittiva; emerge quindi la necessità di descrizioni dense,
capaci di riconoscere elementi strutturali ma aperte a forme disperimentazione,
atte ad alimentare scenari intenzionali e abilitanti le progettualità di
diverso livello territoriale. Ripercorrendo le diverse declinazioni della
ricerca, la direzione che pare qui promettente assume quale obiettivo il
riannodare la trama dei flussi territoriali ai ganci dell’armatura
paesaggistica, punti fermi (come patrimonio culturale–relazionale e come fatto
spaziale) di quel tessuto colloidale cangiante della città preconizzato da
Gottman.[2]
La via tracciata e
pensata da Adobati ci permetterebbe di rintracciare ciò che permane all’interno
delle trasformazioni della città. In questo modo, progettare negli spazi vuoti
della città, in quello che c’é ancora da trasformare, significherebbe
riprendere quello che ci é stato o, meglio, fare memoria di ciò che la città é,
della sua storia. Non di quello che la città é stata, quasi a voler preservare
con una nostalgia paralizzante la storia di una città, ma ri–conoscere in essa
quei punti di interesse storico–artistico come anche floro–faunistico che la
caratterizzano. In questo senso, la città non assume dei bordi ma delle forme
continuamente nuove in grado di trasformare non solo lo spazio, ma anche l’essere
umano. Dove la relazione fra lo spazio e gli uomini e le donne che vi abitano
non é dato solo dalla natura e dalla cultura del territorio ma anche dal modo
di vivere lo spazio, nel ripensarlo come luogo. In altre parole, si tratta di
dare una forma a se stessi prima ancora di dare una forma alla città o, meglio,
di mettere in circolo la propria forma di esistere con la forma del costruire.
In questo si nasconde l’armonia, dove le forme cambiano con il cambiare dell’essere
umano. Dove la trasformazione della città coincide non con un degrado alienante
ma con un processo di umanizzazione. E se questo processo é possibile, allora,
sarà possibile riscoprire una forma interiore dell’essere umano, in grado di andare
ben oltre l’appiattimento degli spazi, per ripensare se stesso alla luce di una
sua trascendenza strutturale. Ed é nella trascendenza, nell’ascetica, nel
superamento di se stesso, che ciascuno di noi potrà costruire la città del
futuro.
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