Quale bellezza? Appunti sulla decrescita in Latouche
La bellezza introvabile
In uno dei suoi ultimi
interventi sulla bellezza, pubblicato sulla rivista Logoi.ph, Serge Latouche racconta del nesso che c’è fra bellezza e
decrescita. Come ben sappiamo, Latouche è uno dei maggiori filosofi
contemporanei che ha introdotto la questione della decrescita. Nel suo intervento, Latouche prende le mosse dal film La grande bellezza di Paolo Sorrentino.
Un film curioso, in cui il tema sembra costantemente sfuggire dallo scenario.
Il protagonista, Jep Gambardella, cerca una bellezza che non riesce mai a
trovare, mentre il mondo in cui pensava di trovarla, pian piano, cede sotto lo
sgretolamento del tempo. Latouche utilizza questo esempio per riportar il
dramma della bellezza nella presa di coscienza di un mondo che ha perso il
senso stesso della bellezza. Infatti, come nella Grande Bellezza, possiamo essere continuamente circondati dalla
bellezza stessa, come è la Roma reale, ma anche immaginifica, del film, ma
questo non ci permette ancora di riconoscere la bellezza. Il troppo della bellezza, rischia di
diventare stucchevole, al punto da
tappare la bocca alla bellezza stessa. Dinanzi a questa bellezza introvabile, Latouche sottolinea la celebre frase de L’idiota di Dostoevskij: la bellezza salverà il mondo. Se non
riusciamo più a trovare bellezza, per Latouche, è il mondo stesso che cadrà a
pezzi, che non verrà salvato. Ma ciò che potrà salvare il mondo e la bellezza è
la decrescita.
L’abuso della bellezza
Guardando al panorama
filosofico, oggi sentiamo spesso parlare di bellezza e, quasi, sempre ci viene
in mente la famosa frase di Dostoevskij. Tuttavia, a questo tanto parlare della
bellezza, risponde sempre più una mancanza di bellezza, una nostalgia di bellezza. Dice Latouche:
C’è una forte ambiguità in questa moda di invocare la
bellezza; perché, quando oggi si riprende la famosa frase di Dostoevskij, “la
bellezza salverà il mondo”, lo si fa allo stesso tempo con una forte nostalgia
e con una speranza: nostalgia per qualcosa di perduto e speranza che la
bellezza, sì, possa salvarci. Allora, di cosa si tratta quando si parla di bellezza?
Nel medesimo tempo si parla di arte, di estetica.[1]
Il primo problema che
pone Latouche è quello di un eccesso, di una crescita sproporzionata della
questione estetica in relazione al bello. Insomma, sentiamo fin troppo parlare
di estetica, ma non sappiamo ancora comprenderne il senso. Per il semplice
fatto che il senso stesso della bellezza ci sfugge. Cristallizzato in forme
artistiche, il senso della bellezza non si identifica, però, con nessuna delle
forme a cui ci rivolgiamo. Tutt’al più nelle forme estetiche possiamo ritrovare
un significato della bellezza, ma il suo senso rimane sempre oltre, sempre
qualcosa di eccedente a qualsiasi concettualizzazione. D’altronde, questo è il
problema che la storia stessa della filosofia si è posta, da Aristotele a
Baudrillard, passando per Kant. Tuttavia, ogni riflessione sull’arte e sulla
bellezza ha prodotto significato alla bellezza stessa nel suo contesto storico,
ma non è mai riuscita a dare e dire l’ultima parola sulla bellezza. Ora, nella
nostra epoca segnata dalla crescita,
la questione estetica è diventata una questione incentrata sulla produzione. Il
problema che viviamo, oggi, dinanzi alla bellezza, è l’abuso del bello, nel senso di abuso
del concetto di bellezza. Ci sembra che la bellezza sia dappertutto, che
tutti facciano riflessioni sulla bellezza, che ciascuno possa improvvisarsi
artista o esteta, ma i significati non fanno altro che moltiplicarsi, senza
nessun senso. O, meglio, tutti i significati sono dati da un solo grande
significato che è quello della crescita,
della produzione e del consumo. Così, se il senso della bellezza continua a
sfuggirci, il suo solo significato è dato dalla produzione di oggetti a cui si
aggiunge un valore estetico. Leggiamo:
L’occidente moderno ha designato sotto il nome di ‘arte’
questa parte di inutilità, questa parte in più che è incorporata negli oggetti.
Abbiamo astratto dal livello ‘artigiano’ questa parte e l’abbiamo chiamata
‘arte’ o ‘qualità estetica’: la nostra è l’unica civiltà, l’unica cultura che
ha fatto questo processo: separare la bellezza dall’utilità e nominare
quest’ultima ‘arte’. Il giudizio estetico (sulla bellezza delle opere) dipende
in gran parte, se non del tutto, dalla cultura; perché la nostra cultura forma
il nostro gusto, vale a dire la nostra capacità di provare emozioni più o meno
forti sulla base o in funzione di un certo contesto.[2]
Per ritornare e
ritrovare la bellezza, allora, ci occorre tornare alle sorgenti di questo
distacco, fra l’artista e l’artigiano. Per ricucire e superare la dicotomia in
un approccio dialettico.
Ritornare alla bellezza: dall’artigiano all’artista
Continuando il suo
intervento, Latouche spinge al riflessione verso l’origine della separazione
fra l’artigiano e l’artista. Secondo il nostro autore è
proprio qui che assistiamo all’ingresso nell’arte dell’artificio. Fino a quando l’artista è stato anche artigiano o,
meglio, quando l’artigiano è stato anche artista, l’oggetto prodotto era anche
un oggetto d’arte. Quando, nel Quattrocento, le due attività si sono scisse,
l’artista è divenuto quasi un esperto
delle forme, colui che aggiungeva la bellezza all’oggetto. Se l’artigiano,
quindi, forma un oggetto, possiamo
dire che l’artista è colui che dà forma
all’oggetto, una forma di bellezza. L’arte, allora, inizia a diventare qualcosa
di aggiunto alla tecnica artigiana e l’artista una professione che si impara
nelle Accademie. Ma è proprio nell’accademismo che Latouche ritrova un’arte che
non è più in grado di dare emozioni, un’arte che perde il suo senso perché si
perde nella tecnicità della forma piuttosto che permettere al genio
dell’artista di rimanere impresso nell’opera.
A questo si aggiunge
la questione che, anche l’artista, ha bisogno di vivere delle sue opere.
Quindi, l’artista entra nell’economia e nel mercato, insomma, nel luogo della
misura, lei che non si ritrova mai nelle misurazioni e nella quantificazione.
L’opera d’arte, insomma, diviene anche un’opera di mercato, un qualcosa di
vendibile e che deve attrarre il pubblico stesso. Questo passaggio è ciò che
Baudrillard definiva il simulacro
dell’arte, dove l’esperienza estetica dell’oggetto è rivolto maggiormente al
soddisfacimento di una domanda di mercato più che alla espressione artistica. Prendendo
consapevolezza di questo, con Latouche, possiamo abbozzare una estetica della decrescita.
La crescita come implosione della bellezza
L’Occidente, oggi, si
trova a vivere alla fine dell’epoca della crescita. Il mercato sembra non
rispondere più all’equilibrio fra domanda e offerta, ma si è spinto oltre. Ad
oggi, l’economia che regge il mondo occidentale non si basa più neanche sulle
risorse disponibili, ma sulla crescita del proprio potere d’acquisto. Insomma, valgo qualcosa in questa società solo e
soltanto se posso permettermi di
comprare. L’economia, quindi, si basa su questa possibilità d’acquisto
dove la possibilità non sempre coincide con la realtà d’acquisto. Per dirla in
altre parole, non importa se ho le risorse per permettermi di comprare
qualsiasi oggetto, l’importante è che possa comprarlo. Questo instaura
un’economia nuova, che ha il proprio perno sul debito più che sulle risorse. In questa prospettiva, allora,
comprendiamo le parole di Latouche quando afferma che la società occidentale
non cresce in un equilibrio fra domanda e offerta, ma cresce per la crescita
stessa.
In questo tipo di
economia e di società, l’arte rischia la sua sparizione, per dirla con Baudrillard, a causa della distruzione della cultura e della meccanizzazione tecnica. Per quanto
riguarda la distruzione della cultura,
la crescita presuppone sempre più una velocità che non permette la
metabolizzazione degli avvenimenti, preferendo sempre più la serializzazione e
la standardizzazione. Questo processo viene rimarcato sempre più dall’ingresso
della meccanizzazione e della
riproducibilità dell’arte che la lascia implodere dall’interno, dal momento che
all’arte come espressione, viene preferita l’astuzia della strumentalizzazione
artistica. La pubblicità è un esempio di tutto questo. In questa polarità, fra distruzione della cultura e meccanizzazione, si situa la religione della crescita che con il suo
disincanto ha desacralizzato ogni cosa, sacralizzando la desacralizzazione. In questo modo, ogni cosa ha un solo comune
destino: la macinazione dentro il vortice dell’uso e consumo. Continua
Latouche:
È proprio a questa banalizzazione mercantile che si oppone
l’artista, il cui ruolo è insostituibile per la costruzione di una società
serena della decrescita. La sacralizzazione della de-sacralizzazione porta
all’idolatria: ciò spiega la concorrenza al cattivo gusto provocatore che
ritroviamo nella tarda modernità. La Maggiorelli dice: “così piace al ristretto
e facoltoso pubblico che frequenta le aste a Londra, a New York, in Svizzera”.
Le mucche squartate e conservate in teche simili ad acquari il cui prezzo è da
capogiro. E si potrebbero moltiplicare gli esempi di questo genere. Questo ci
porta a ciò che Baudrillard chiamava ‘la nullità dell’arte contemporanea’. C’è
incontestabilmente una saturazione estetica che genera ciò che Castoriadis ha
chiamato giustamente ‘l’ascesa della insignificanza’.[3]
Dinanzi a questa nuova
saturazione estetica in cui il segno perde il suo significato, ci rivolgiamo nuovamente,
con Latouche, a quello che egli stesso ha chiamato decolonizzazione dell’immaginario.
Decolonizzare l’immaginario: il ritorno al sacro
La società dei consumi
e della crescita ci mette davanti un nuovo orizzonte: la decrescita.
Semplicemente, non possiamo pensare di crescere all’infinito con risorse che
sono finite. D’altronde, non possiamo più pensare di reggere una società in cui
la maggior parte delle cose che utilizziamo non possono essere né riparate, né
aggiustate, né riutilizzate. Viviamo, infatti, con questa consapevolezza più o
meno conscia, che tutto ciò che ci circonda, prima o poi, verrà sostituito da
altro. Questo è ciò che Latouche chiama l’immaginario
da decolonizzare. Occorre una conversione di massa che ci riporti non
semplicemente a consumare meno o a produrre meno, ma a ritrovare il re-incanto del mondo. Se fino ad ora
abbiamo pensato che il disincanto fosse la sola via percorribile per progredire
e per crescere, oggi ci rendiamo conto che la crescita illimitata, che il
progresso illimitato, non ci portano verso l’autodistruzione. Ora, per
ritornare ad un re-incanto del mondo,
molti propongono il ritorno al religioso. Assistiamo, così, ad un grande
mercato di religioni dove ciascuno può trovare la propria nicchia e il proprio
riparo o, semplicemente, il proprio equilibrio. Le religioni che vengono
maggiormente scelte, infatti, si basano proprio su questo equilibrio fra il
divino, il mondo e l’essere umano. Tuttavia, Latouche non pensa che bisogni
tornare ad una religione qualsiasi o a scegliere una religione o a creare una
religione nuova. Dice Latouche:
Se il sacro, secondo la definizione di Castoriadis, è il
“simulacro istituito delll’abisso”, allora i poeti, i pittori, gli esteti di
ogni sorta, in pratica tutti gli specialisti dell’inutile, del gratuito, del
sogno, delle partite sacrificate di noi stessi, dovrebbero essere sufficienti a
creare il re-incanto. Davvero non è necessario ricorrere a teologi ayatollah,
né alle grandi sacerdotesse eco-femministe dei culti neo-pagani sincretici, né
ai guru new age che fioriscono in ogni dove per riempire il vuoto
dell’anima della nostra società alla deriva. La scommessa della decrescita è
tutt’altra. Non siamo diventati degli atei della crescita, degli agnostici del
progresso, degli scettici della religione e dell’economia per convertirci in
adoratori della dea natura, anche se la si chiama Pachamama, e trasformarci in
grandi sacerdoti del vangelo dell’abbondanza frugale. Bisogna re-incantare il
mondo, bisogna aggiungere gli ingredienti di natura spirituale alle
sottigliezze filosofiche e scientifiche, e per questo sembra che la poesia,
l’estetica e l’utopia concreta, possano essere sufficienti. Questo è il ruolo
dell’arte vera.[4]
Seguendo le orme di
Latouche e concludendo, possiamo affermare che non si tratta di tornare a delle
forme specifiche di religione, quanto ad una spiritualità che diano forma
all’arte come alla politica. Non occorre più aderire ad una religione come si
aderisce ad un partito, ma guardare il mondo stesso come una creazione
complessa, come un immenso reticolo di relazioni in cui noi siamo immersi, di
cui anche noi facciamo parte. Questa è la sfida della bellezza nella nostra
epoca, una bellezza che torna all’essenzialità delle relazioni e delle
interconnessioni. Una bellezza che salverà il mondo, perché Dio è bellezza.
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