Sotto il segno della discontinuità 5. Il linguaggio e la parola: la discontinuità del termine



Nell'itinerario del pensiero di Florenskij, non poteva mancare la riflessione sulla parola e sul linguaggio. In quanto elementi che caratterizzano una cultura e, quindi, una conoscenza, la riflessione di Florenskij non poteva non guardare alle conseguenze che ha una lingua sulla comprensione della realtà e, in particolare, sulla funzione del termine linguistico. Il punto di partenza di Florenskij è sempre lo stesso: guardare all'antinomia di ogni realtà. Per questo scrive: 
In tal caso, però, la forza della lingua non è il suo monismo, nè la purezza sterilizzata dell'uno o dell'altro dei suoi princìpi (quello istintivo o quello logico), nè l'estendersi unilateralmente verso un'unica direzione; ma, al contrario, la tensione della sua antinomia considerata come un tutto: un potente e reciproco sostegno di entrambi i pilastri. È necessario non indebolire uno dei poli dell'antinomia della lingua ma, al contrario, rafforzare entrambi in egual misura: così appunto si fortifica la lingua. L'approfondimento, la concentrazione, la fortificazione della lingua vengono conseguiti attraverso l'incremento del suo turgor vitalis, quando si autoconcentra, si struttura e si cristallizza la sua contraddittorietà. La cultura di una lingua, con sforzo duplice ma unitario, la sospinge simultaneamente lungo due vie parallele e congiunte: e soltanto così può far avanzare la lingua verso nuovi risultati, senza distruggere, per questo, la sua natura più genuina. Il lavoro condotto sopra la lingua ha un compito specifico: temprare la sua antinomia da ferro in acciaio, rendere cioè la dualità della lingua ancora più incontestabile, ancora più solida. Di questo acciaio devono essere costituite anche la scienza e la filosofia, o piuttosto non esistere affatto.[1]
La forza della parola vive nella cultura di un popolo o, meglio, nella antinomia che si viene a generare nell'uso delle parole. Perché se l'essenza di una parola è l'antinomia stessa, per Florenskij, la parola stessa è potente. Se la parola è antinomica, allora, contiene in sè un altissimo valore creativo. E la parola è antinomica in quanto è stratificata da una storia etimologica che riflette la storia della cultura stessa e dall'altra parte perché è sempre aperta a nuove trascrizioni della realtà. Di qui, la parola si trasforma da ferro in acciaio, da un materiale che si usura, ad uno che è molto più resistente e forte. Il compito della scienza e della filosofia è di generare una nuova cultura in grado di trasformare le parole mantenendone l'etimologia. Qui è il turgor vitalis di ogni cultura. Ma per poter comprendere una parola, ci occorre guardare ad una espressione particolare della parola che è il termine. Per Florenskij, un termine è il fine discontinuo di ogni parola, in quanto ogni parola, nella sua potenza creatrice ed etimologica, assume la forma di un termine. Ed è il termine, ciò che caratterizza la discontinuità in una parola. Dal punto di vista filosofico, Florenskij scrive: 
Così terminus indica essenzialmente un confine. Originariamente, questo confine era concepito come tracciato materialmente e perciò il nucleo più altamente significativo delle parole appartenenti a questa famiglia etimologica indicava un palo di confine, una pietra di confine, un segno di confine in generale. In greco alla parola "termine", tanto in filosofia quanto in ambito d'uso più esteso, corrisponde la parola hòros (ὅρος) e, inoltre, la parola horismòs (ὁρισμός), da ForFos, che significa essenzialmente: "solco" e, in seguito, "confine". Come in tutti i termini filosofici arcaici, nello stesso termine "termine" si avverte senza difficoltà l'originario significato sacramentale e questo sacro proto-significato non è un caso in filosofia; ma, al contrario, come notiamo accadere regolarmente nella storia della terminologia filosofica, la coniazione della terminologia filosofica appunto da una parola d'uso comune rivela, nella parola, il suo strato originario, offuscato poi dai suoi successivi sviluppi unilaterali, i quali, in modo legittimo ma rendendola più inespressiva, scompongono la metafisicità della parola e la compatta pienezza della sua radice originaria.[2]
Il termine, in quanto termine della parola, è anche confine della parola stessa. Ed è proprio questo confine che ci permette di comprendere la parola nella sua essenza terminologica o, meglio, di risalire dal termine alla parola, per giungere al nome. La discontinuità del termine, ci riporta a conoscere la realtà nella sua ontologia, nominandola. 



[1] P. A. Florenskij, Attualità della parola. La lingua fra scienza e mito, Guerini e associati, Milano 2013, p. 121. 
[2] Ivi, p. 140. 

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